Il Festival le assegna un premio specialissimo per la radio, arte non presa in considerazione dal Festival. Con il suo programma “ComuniCattivo” ha rivoluzionato il modo di fare radio e comunicazione. 1400
puntate andate in onda, con oltre 5.000 interviste. Ad oggi sono 20 le tesi di laurea sul programma, sul suo linguaggio e sul suo modo di fare infotainment, informazione e intrattenimento. Come ha avuto questa geniale idea?
Parlare di argomenti, anche se ostici, con un linguaggio comprensibile a tutti, utilizzando l’ironia, una sana dose di cattiveria e la creatività senza mai scendere a compromessi con l’intelligenza, lasciando da parte la volgarità e la banalità è il manifesto de “Il ComuniCattivo”, primo programma italiano dedicato alla comunicazione in tutte le sue forme e linguaggi. Il ComuniCattivo innova il linguaggio radiofonico mettendo in risalto le grandi trasformazioni dell’Italia che cambia portando alla luce mediatica attività curiose e bizzarre, i nuovi linguaggi giovanili, i novi media, le strategie di comunicazione innovative e tradizionali italiane ed estere, vincenti e perdenti. Sempre attraverso la formula che invita a non prendersi troppo sul serio, a dare spazio alla fantasia e all’ottimismo perché essere tristi e seriosi non vuol dire essere intelligenti e colti. Al ComuniCattivo gli ascoltatori non vengono suddivisi per target, ma per stili di vita. Un cinquantenne di oggi non ha nulla a che vedere con un suo coetaneo di 10 o 20 anni fa. Il programma segue un copione scritto dove molto poco è lasciato all’improvvisazione. Il ComuniCattivo è un progetto cross mediale, diffuso cioè attraverso più mezzi di comunicazione, radio, tv, internet, editoria, carta stampata, audio libri, seguito da un pubblico variegato che va dai 16 agli 80 anni.
Ma è stata dura la gavetta da Grosseto, sua città natale, fino a Roma in Rai, passando attraverso varie esperienze giornalistiche in varie redazioni italiane?
Durissima come tutti coloro che cominciano in una città di provincia. Ma la provincia ti forma e ti da la possibilità di fare esperienze.
Dal 1999 lei è anche docente universitario. Come si pongono le nuove generazioni di fronte ai problemi della comunicazione?
Internet ha stroncato totalmente la generazione che si è globalizzata.
Infine anche attore, come mai?
Albertone mi chiamava con affetto “lo scugnizzo”. Diceva che avevo uno sguardo molto espressivo e che avrei dovuto fare l’attore. Ma io, fin da bambino, gli dicevo che volevo fare il giornalista. Anche se a 18 anni mi iscrissi e frequentai una scuola di recitazione. Di lui ho sempre apprezzato l’estro e la creatività che nella nostra famiglia non sono mai mancate, ma anche la sagacia, la modestia e la sua grande umanità. A Firenze partecipò a una mostra di mia padre Alessandro, suo cugino, e mi colpì vederlo circondato da persone di tutte le età. Aveva sempre un sorriso per tutti, non come tanti finti personaggi attuali. Abitavamo a Grosseto e lui venne a Cala di Forno a girare il film “In viaggio con papà” con Carlo Verdone. Venne a trovarci e scherzammo per un bel po’, interpretando caricature d ipersonaggi semplici presi dalla quotidianità.
Lei è parente di Alberto Sordi. Secondo lei, se l’avesse chiamata a recitare in uno dei suoi film, quale ruolo le avrebbe affibbiato?
Mi aveva proposto una parte nel film “Nestore l’ultima corsa”, pellicola alla quale teneva moltissimo. Ma io facevo il giornalista, e gli dissi che avevo studiato recitazione, come lui mi consigliò, per poter fare l’anchormen ma non l’attore. Solo da alcuni ho messo in pratica i miei studi di recitazione partecipando a fiction televisive come “Ris”, “Distretto di Polizia”, e film con Lando Buzzanca, Raoul Bova e il regista Pupi Avati.
Mattia Lattanzi
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